Con Anaïs Demoustier, Jérémie Elkaïm, Aurelia Petit, Frédéric Pierrot, Geraldine Chaplin, Sami Frey, Audrey Quoturi, Bastien Bouillon, Raoul Fernandez.
Titolo originale Marguerite et Julien. Drammatico (colore). Durata 110 min. Francia 2015 (Officine Ubu)
Marguerite e il fratello Julien si amano teneramente fin dalla primissima infanzia e non desiderano altro che stare l’uno accanto all’altro. Crescendo, il loro affetto si converte in un sentimento amoroso definitivo, inaccettabile per la società di ieri, come per quella di oggi. Separati più volte forzatamente, si aspettano e rinnovano ad ogni occasione la loro dedizione reciproca, fino alla decisione di fuggire in Inghilterra e vivere come coniugi sotto mentite spoglie.
Per il suo quarto lungometraggio, la regista di La guerra è dichiarata riscrive con il partner di sempre, Jérémie Elkaim, la sceneggiatura stesa nel 1971 da Jean Gruault per Francois Truffaut (che abbandonò il progetto del film due anni dopo.) La storia s’ispira alla vicenda di Julien e Marguerite de Ravalet, figli del signore di Tourlaville, decapitati nel 1603 per adulterio e incesto. La Donzelli riscrive il concetto di epoca mescolandone diverse: c’è il castello secentesco (quello vero, di Tourlaville), ci sono i cavalli, ma ci sono anche le automobili, la radio, gli elicotteri, e i costumi, più che al diciassettesimo secolo, guardano decisamente all’Ottocento di Adele H., riferimento esplicito e inconfutabile del film nel suo complesso.
La regista cerca una via ibrida e nuova, che annulli i confini temporali della storia, ma incrocia troppi sentieri e finisce disastrosamente fuori strada. Wes Anderson e Charles Laughton, persino il Fritz Lang del Covo dei contrabbandieri (per la scena della fuga all’alba via mare), prestano alla Donzelli delle suggestioni comprensibili, che finiscono però per passare da un trattamento eseguito senza sufficiente lucidità di idee, che trasforma ogni cosa in kitsch senza scampo. Anche la recitazione non sa decidere tra il melodramma e la stilizzazione estrema e il risultato ha spesso l’involontario aspetto della farsa. Per non dire, infine, dell’epilogo, che parla un’altra lingua ancora, e siamo felici di non averla compresa.