Con Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Marco Graf, Daniela Demesa, Carlos Peralta, Nancy García.
Titolo originale Roma. Drammatico (colore). Durata 135 min. Messico 2018 ( Participant Media - Distribuzione: Cineteca di Bologna)
VINCITORE DI TRE PREMI OSCAR: MIGIOR REGISTA, MIGLIOR FILM STRANIERO E MIGLIOR FOTOGRAFIA
Messico, 1970. Roma è un quartiere medioborghese di Mexico City che affronta una stagione di grande instabilità economico-politica.
Cleo è la domestica tuttofare di una famiglia benestante che accudisce marito, moglie, nonna, quattro figli e un cane. Cleo è india, mentre la famiglia che l’ha ingaggiata è di discendenza spagnola e frequenta gringos altolocati.
I compiti della giovane domestica non finiscono mai, e passano senza soluzione di continuità dal dare il bacio della buonanotte ai bambini al ripulire la cacca del cane dal cortiletto di ingresso della casa: quello in cui il macchinone comprato dal capofamiglia entra a stento, pestando i suddetti escrementi.
Perché nel Messico dei primi anni Settanta tutto coesiste: la nuova ricchezza come la merda degli animali da cortile, il benessere ostentato dei padroni e la schiavitù “di nascita” dei nullatenenti.
Tutto convive in un sistema contradditorio ma simbiotico in cui le tensioni sociali non tarderanno a farsi sentire, catapultando il recupero delle terre espropriate in cima all’agenda dei politici in cerca di consensi.
Era dai tempi di Y Tu Mama Tambien che Alfonso Cuaron non girava un film nel suo nativo Messico, e sono trascorsi cinque anni da quando Gravity l’ha definitivamente consacrato al gotha hollywoodiano.
In un bianco e nero pastoso che mescola ricordi nostalgici e denuncia sociale, con Roma Cuaron torna alle proprie radici e racconta il Messico della sua infanzia, nonché il debito di riconoscenza che tutti i figli della borghesia messicana devono alle tate e alle “sguattere” che li hanno cresciuti con amore e devozione. Roma è il suo film più intensamente personale e più provocatoriamente politico, e racconta un intero Paese attraverso il suo frattale minimo, e il più indifeso.
Cleo è un prodigio di efficienza e un contenitore di dolcezza senza fondo, cui attingono senza vergogna e senza scrupoli coloro che hanno avuto la fortuna di nascere in una classe sociale più elevata, e i cui avi hanno contribuito a depredare le risorse del Paese, che appartenevano – quelle sì per diritto di nascita – alla popolazione indigena. In lei si consuma una quieta implosione, quella di essere umano così stanco di spendersi per gli altri che “fare finta di essere morta” le sembra un gioco sorprendentemente piacevole. In aggiunta alla sua condizione di india povera, Cleo è donna: e questo la rende il paria della terra, inferiore persino a quegli uomini nullatenenti che le ronzano intorno, e che imbottigliano energia vitale per la rivoluzione a venire, ma dimenticano la più elementare decenza nei confronti delle proprie compagne. Il ritratto che Cuaron fa di un maschile distruttivo e irresponsabile, contrapposto ad un femminile accuditivo e aperto al cambiamento, collega Roma a Gravity nella convinzione che il futuro sia donna.