Con Bartosz Bielenia, Aleksandra Konieczna, Eliza Rycembel, Tomasz Zietek, Barbara Kurzaj.
Titolo originale Corpus Christi. Drammatico (colore). Durata 115 min. Polonia, Francia 2019 (Wanted.)
CORPUS CHRISTI
Daniel è un giovane che si trova in riformatorio per reati non solo di poco conto. Avrebbe voluto diventare sacerdote ma la sua fedina penale ora glielo impedisce. Quando però viene inviato, per un permesso lavorativo, in un paese lontano dal riformatorio viene creduto un prete e lui non fa nulla per smentire questa credenza diventando anche momentaneo sostituto del parroco.
Film che ha ricevuto la nomination per l’Oscar quale Miglior Film Straniero, questo secondo lungometraggio di finzione del trentottenne (all’epoca dell’uscita del film a Venezia) Jan Komasa si muove su un duplice equilibrio tanto instabile quanto, proprio per questo motivo, produttore di senso.
Perché sarebbe semplice ma anche riduttivo leggerlo come una vicenda (che trae origine da fatti realmente accaduti in Polonia in cui qualcuno si è spacciato come sacerdote) che mette in luce le profonde contraddizioni di un giovane magnificamente interpretato da Bartosz Bielenia. Il suo Daniel conosce la violenza e il lasciarsi andare all’alcol, alla droga e al sesso privo di qualsiasi elemento affettivo ma proprio per questo in qualche misura possiede una sensibilità che lo avvicina a chi ha sbagliato in passato ed è consapevole del fatto che non sarà difficile poter tornare a sbagliare.
La veste che indossa senza averne titolo diviene una sorta di corazza dentro la quale sente di poter sfidare i pregiudizi anche in modo plateale senza subire altre conseguenze che il mormorio di chi lo circonda e le non tanto velate minacce di chi detiene il potere locale. Il suo sguardo è costantemente quello di un cuore in allarme che teme di veder fallire non tanto il suo mascheramento quanto piuttosto il suo consapevolmente precario rapporto con Dio.
Chi invece non ha dubbi sul proprio rapporto con la divinità sentendosi dalla parte del giusto (qui sta la duplicità e forse la parte più interessante del film) sono coloro i quali, avendo perso i propri cari in un incidente di cui si è stabilito a priori il colpevole, hanno deciso di non dargli tregua neppure dopo morto. È qui, più che nel ritratto di un caso anomalo di assunzione dell’abito talare, che si colloca il nucleo di riflessione profonda del giovane sceneggiatore Mateusz Pacewicz. Perché riguarda tutti coloro che dicono di professare la fede cattolica ma che spesso vorrebbero piegarla al proprio volere, all’affermazione dei propri diritti (veri o presunti) cercando di trasformare Cristo nel proprio discepolo invece di assumerne il ruolo.
Non è un caso che il fragile e violento Daniel si volga verso il Crocifisso in una scena fondamentale del film, quasi chiedendo cosa fare a un Gesù che vuole che chi lo segue sia capace di compiere le proprie scelte che possono comportare errori ma che, se compiute senza la pretesa di giudicare (“Non giudicate per non essere giudicati perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati” Mt 7.1-2), riescono a conservare il senso della misericordia che alla brava gente del villaggio sembra mancare. Ne esce così il ritratto non solo della Polonia odierna ma di molte altre nazioni nel mondo (cattoliche ma non solo) ripiegate su se stesse e incapaci di guardare oltre.