Con Geoffrey Rush, Armie Hammer, Clémence Poésy, Tony Shalhoub, James Faulkner, Sylvie Testud, Philippe Spall.
Titolo originale Final Portrait. Biografico, Drammatico (colore). Durata 90 min. Regno Unito, Francia 2017 (Bim Distribuzione)
TRAMA FINAL PORTRAIT:
Nel 1964, durante un breve viaggio a Parigi, lo scrittore americano e appassionato d’arte James Lord incontra il suo amico Alberto Giacometti, un pittore di fama internazionale, che gli chiede di posare per lui. Le sedute, gli assicura Giacometti, dureranno solo qualche giorno. Lusingato e incuriosito, Lord accetta. Non è solo l’inizio di un’amicizia insolita e toccante, ma anche – visto attraverso gli occhi di Lord – di un viaggio illuminante nella bellezza, la frustrazione, la profondità e, a volte, il vero e proprio caos del processo artistico.
Come rappresentare il processo creativo di un genio artistico all’opera? Interrogativo complesso che ha visto cadere nel corso degli anni impianti rigorosi e promettenti di autori anche di grande spessore. La scommessa diStanley Tucci, quindi, non era di certo facile, ma sicuramente accanita, visto che gli ci sono voluti dieci anni per arrivare a Final Portrait, analisi dell’ultimo periodo di vista del pittore e scultore svizzero italiano Alberto Giacometti, da molti ritenuto fra i maggiori artisti della seconda metà del secolo scorso.
Un artista che cerca di raccontare un altro artista, adattando il libro di memorie di James Lord, all’epoca dei fatti – siamo nel 1964 – giovane scrittore americano in visita a Parigi. I due erano amici già da una decina d’anni quando Giacometti gli chiede di posare per un ritratto, premettendo che sarebbe stata solo questione di un pomeriggio, al massimo un giorno o due. Quello che Lord ha invece raccontato, e Tucci con lui, è uno sguardo lungo 18 sessioni nella quotidianità di un artista eccentrico, scorbutico e pieno di senso del’umorismo.
Final Portrait è innanzitutto il tentativo di rappresentare un’ossessione verso la perfezione di un’artista. Per aiutare nello scopo, si avvale di interpretazioni convincenti: Geoffrey Rush di nuovo i panni di un genio prossimo alla follia, dopo Shine, e a fargli compagnia Armie Hammer.
Tucci mostra una Parigi degli anni sessanta lontana dalle immagini da cartolina, pregne di una nostalgia intrinsecamente anacronistica, preferendo optare per un aspetto quasi monocromatico, vicino a quello malinconico della nouvelle vague. La dinamica fra maestro e giovane testimone per la posterità del suo genio non è certo una novità, né qui risulta particolarmente rielaborato al di là di un rapporto che non si evolve più di tanto dalla prima all’ultima sessione. Quella che inizia a perdere Lord è la pazienza, mista al narcisismo lusingato dalla richiesta di posare, man mano che i rinvii gli impediscono il rientro in patria dagli affetti. Con un ritmo poco variato da un giorno all’altro, Tucci ripercorre le giornate scandite da pasti ingollati al bistrot in tutta fretta, sigarette accese una via l’altra, con la vitalità della sua amante/prostituta/musa Caroline sempre più invadente, sotto gli occhi della moglie Annette.