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E’ solo la fine del mondo

di Xavier Dolan

Con Marion Cotillard, Léa Seydoux, Vincent Cassel, Nathalie Baye, Arthur Couillard, Gaspard Ulliel.

Titolo originale Juste la fin du monde. Drammatico (colore). Durata 95 min. Francia 2016 (Lucky Red)

E’ solo la fine del mondo

Louis (Gaspard Ulliel) manca da casa da ben dodici anni. Scrittore e sceneggiatore affermato, decide di tornare per un motivo tanto semplice quanto devastante: annunciare la sua morte. A casa lo aspettano la madre (Nathalie Baye), la sorella Suzanne (Léa Seydoux), il fratello Antoine (Vincent Cassell) e la moglie di quest’ultimo, Catherine (Mario Cotillard).

C’è tanto Dolan sin dalla primissima sequenza, un’introduzione che reca uno specifico marchio di fabbrica, giocato su immagini sfocate e l’elegante brano che ti aspetti. A casa fervono i preparativi, mentre tutti si domandano come mai il figliol prodigo decida di tornare improvvisamente a casa. Chiaramente Louis non ha fornito alcun indizio, e a quanto pare nemmeno lui ha le idee chiare: «non so quando glielo dirò, magari dopo il dessert…», comunica ad una persona per telefono.

Tutto si può dire a questo Dolan, che peraltro lo si aspettava al varco, ma non che il suo Juste la fin du mondeabbia poco da dire, risolvendosi nel mero esercizio di stile dolaniano auto-incensante. Vero è che, pur affidandosi per la prima volta a materiale non suo, il regista canadese lo adatti a sé stesso, facendolo a conti fatti diventare una delle sue possibili storie. In questo senso potrebbe trattarsi di un nuovo Dolan: per la prima volta parla al futuro, specula su come potrebbe essere anziché descrivere situazioni specifiche che ben conosce. Suppongo fosse arrivato il momento di sottoporsi ad un simile banco di prova; senza però pretendere che smettesse il proprio abito, ché chi l’avesse anche solo per un attimo pensato sarebbe un illuso.

C’è amore in Just la fine du monde. Tanto amore. Un melò nostalgico, come se ne facevano decenni addietro, declinato però secondo un’idea di cinema molto chiara, pop, che passa da menzioni come Blink 182 e Haiducii, flashback sempre più parte integrante della poetica di Dolan, ed un’esasperazione emotiva che quest’ultimo si porta dietro dal suo primo I Killed my Mother. Anche qui, si passa da 0 a 100 in pochi secondi: la famiglia descritta in Juste la fin du monde è sfasciata, atomizzata, forse in modo irrecuperabile. Ma proprio per tutte queste cose è viva.

Non si può glissare così impunemente sul lavoro operato in termini di linguaggio peraltro: così come il formato di Mommy assolveva ad un compito specifico, la collezione di primi piani stretti e senza profondità di campo dice più di quanto se ne sarebbe ricavato spiegando: il vero peccato sta nell’essere così ripiegati su sé stessi. Non è che Louis fatica a trovare il momento giusto per dare La notizia, è solo che evidentemente a nessuno interessa sentirla, così presi come sono dalle proprie paure, ambizioni, rimorsi, rancori. L’unica è Catherine, la quale, non a caso, è un’estranea. Ma anzitutto è una donna che comprende la situazione, e l’intesa tra lei e Louis, inizialmente impacciata, rappresenta una delle cose che più scaldano il cuore in questo film.

Mi pare tra l’altro che, più che a film precedenti, il collegamento più sensato sia da stabilire col videoclip che Dolan ha girato nel 2013 per gli Indochine: quella che sperimenta Louis è una sorta di passione in vista della sua personale crocifissione, accettata rassegnazione ma senza odio. Forse Louis sa di non poter pretendere troppo dai suoi familiari, sia perché si rende conto che in fondo non è cambiato nulla, sia perché nemmeno lui è esente da colpe, su tutte quella di averli abbandonati. In questo senso sì, è un nuovo Dolan, più maturo, che comincia a mettersi timidamente in discussione. Sarebbe troppo chiedere di scrollarsi totalmente di dosso un certo egocentrismo, ma l’impressione è che Xavier stia crescendo anzitutto come uomo, di conseguenza come cineasta.

Si veda il personaggio di Cassel, incazzoso, a sua volta infantile, eppure tutt’altro che superficiale. Il rapporto tra Antoine e Louis è toccante in quanto alimentato da un sentimento viscerale, che mescola amore e odio al contempo: non è un caso se uno dei momenti più emotivamente carichi è costituito da un flashback in cui i due, anni e anni prima, giocano insieme. Perciò Dolan, che si è imposto anche e soprattutto per la sua capacità di raccontare l’universo femminile, sebbene attraverso la figura materna, in quella maschile non scorge più la mera minaccia (Tom à la ferme) bensì quella parte con cui doversi riconciliare per poter tornare a respirare. Per sperare, come dice all’inizio, di essere finalmente «padrone della propria vita».

La questione di fondo è questa: Louis non è in cerca di alcun cambiamento, specie adesso che di tempo non ne ha più. Le ragioni per cui vuole riavvicinarsi sono certamente pure egoistiche, eppure, tra un silenzio e l’altro, il protagonista cresce in consapevolezza, dando ancora una volta ragione alla madre quando a tutti tende una mano, sebbene nessuno riesca ad accorgersene.

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Certo, Juste la fin du monde tende a soffrire del suo formato ridotto, perché questa è una storia che avrebbe respirato meglio nell’arco delle due ore e passa. Tuttavia l’intensità pensata da Dolan sembra non tollerare una maggiore diluizione, in qualche modo già contemplata: più di metà film si snoda attraverso conversazioni one-to-one, moderne confessioni in cui ciascuno dei personaggi si apre a Louis, chiedendo finanche consigli. In questi frangenti emerge un certo conservatorismo, un ripiegare in forme di narrazione dal ritmo molto cadenzato, che il regista prova a stemperare ora infilando un brano dei Blink 182 (I Miss You), ora alzando i toni della conversazione in maniera estemporanea.

Just la fin du monde è perciò un film a cui senz’altro manca qualcosa, un’ulteriore deviazione rispetto a Mommy, per un cineasta che dichiara espressamente di non volere ripetersi pur rimanendo fedele a sé stesso. Un processo, questo, che non può ad ogni buon conto lasciare indifferenti, malgrado le imperfezioni.

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